Linea d’intervento 3 – Vita Indipendente (Parte 1)

La legge 21 maggio 1998, n. 162 ha introdotto nella normativa italiana, novellando la legge 5 febbraio 1992, n. 104, un primo riferimento al diritto alla vita indipendente delle persone con disabilità.

La cosa interessante della premessa non è tanto l’excursus sulla 162/98, che, come si sa, estendendo gli effetti della legge 104/92, parla esplicitamente di vita indipendente (ma la legge va anche al di là, in quanto il suo fine è quello di “programmare interventi di sostegno alla persona e famigliare”, coinvolgendo tutti gli enti territoriali necessari alla programmazione del servizio di assistenza), ma l’analisi dei punti di forza e debolezza di questa legge; soprattutto il fatto che la si collega alla Convenzione ONU dei diritti del disabile, che, all’articolo 19, sancisce il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere in società.

In particolare l’articolo 19 della Convenzione sancisce “il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società.”

L’obiettivo di tale linea di azione è dichiaratamente quello di attuare a pieno le direttive dell’articolo 19 della Convenzione, coinvolgendo gli enti territoriali e le stesse associazioni di persone con disabilità per la definizione dei progetti (lo stesso decreto, nella sua digressione sull’articolo 162, riconosce l’azione meritoria dei vari Centri per la Vita Indipendente).

La strategia di azione è duplice: (a) contrasto delle situazioni segreganti e (b) adattamento dei servizi messi a disposizione dell’intera popolazione alle singole esigenze delle persone con disabilità. Certo, per l’attivazione dei servizi, è necessario il riconoscimento della situazione di disabilità, ma questa non viene intesa esclusivamente dal punto di vista medico, ma “come rischio o costanza di esclusione sociale e di assenza di pari opportunità”. L’integrazione coinvolge qualsiasi ambito: dall’accesso ai servizi non solo medici, ma anche ricreativi e culturali, alla cosiddetta “de – istituzionalizzazione”, al sostegno economico e patrimoniale (di quest’ultimo parlerò nell’articolo successivo).

Viene favorito il generale processo di de istituzionalizzazione da un lato e lo sviluppo di progetti di “abitare in autonomia” che coinvolgono piccoli gruppi di persone dall’altro (come nel caso delle diverse esperienze funzionanti in Italia per persone con problemi intellettivi). Vengono predisposte forme di intervento propedeutico all’abitare in autonomia che prevedono budget di spesa decrescenti in relazione al crescere delle competenze e abilità delle persone nel gestire la propria vita relazionale e quotidiana e l’attivazione di progetti integrati (abitare, lavoro e socialità) per garantire durata all’esperienza di autonomia.

Tuttavia non si dimentichi che l’assunto alla base del sostegno domiciliare è l’uguaglianza delle persone con disabilità agli altri cittadini, riconoscendo quindi il loro diritto di scegliere il proprio luogo di residenza.

Ovviamente, per una progettazione di vita personalizzata, è anche necessaria “la definizione di un budget integrato di progetto anche con previsione di investimenti decrescenti in funzione degli obiettivi raggiunti e consolidati, e una chiara identificazione delle responsabilità di realizzazione, e monitoraggio (case management) degli interventi”; e qualora la persona con disabilità, per diversi motivi, non sia in grado di attuare una corretta gestione patrimoniale, questi verrà affiancato da un amministratore di sostegno, figura nuova, introdotta nella legislazione italiana con la legge 6 del 2004.

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